I mulini ad acqua di Lioni
Di Angelo Colantuono e Stanislao Cozza.
Nel 1870 fu fatto il censimento dei mulini esistenti in provincia di Avellino. L’anno precedente era stata istituita la famigerata “tassa sul macinato” e il governo era interessato a sapere quanti erano gli impianti in funzione e chi li gestiva. A titolo di curiosità: per il frumento la tassa era di due lire al quintale, un quintale di grano valeva intorno a 30 lire e un bracciante agricolo guadagnava una lira e mezza a giornata.
Le schede del censimento, con i dati relativi a ciascun comune, sono ora pubblicate in un libro intitolato: Alle origini di Minerva trionfante. Cartografia della protoindustia in Campania (secc. XVI-XIX). Vol. I, tomo I (a cura di Giuseppe Cirillo e Aurelio Musi), Roma, Ministero per i Beni Culturali, Direzione generale per gli Archivi, 2008. Il testo si può anche scaricare da www. alar. unina2.it / jsite / pubblicazioni / volumi_cirillo / volume1. pdf.
A Lioni furono rilevati sette impianti, indicati a volte con il nome del corso d’acqua che li alimentava, a volte con quello della contrada in cui erano situati. Sono chiamati, nell’ordine: Fontaniello, Piano d’Oppido, Gorgosao, Cupa, Cava, Schinicosa e Trascietto. Non sono riportati nel documento altri due opifici che pure hanno operato nel territorio lionese, il mulino Perrone e il mulino Pallante. Il secondo nel 1870 non era stato ancora costruito; dell’assenza del primo non sappiamo dare una spiegazione. Ma di tutto questo torneremo a parlare diffusamente più avanti. Prima conviene vedere come erano fatti i mulini dell’epoca e come funzionavano
La maggior parte degli impianti in uso dalle nostre parti non somigliavano all’icona classica del mulino ad acqua, con la grande ruota verticale che pesca in un canale. I mulini a ruota verticale erano più efficienti, ma avevano bisogno di un flusso abbondante e continuo; perciò venivano costruiti generalmente in pianura, sulle rive dei grandi fiumi. Nelle zone collinari come le nostre, invece, il tipo di impianto più usato era quello a ruota orizzontale, che sfruttava soprattutto la pressione e la velocità dell’acqua.
I mulini a ruota orizzontale ricevevano l’acqua dal fiume o dal torrente attraverso un canale di derivazione che serviva a controllare la portata del flusso e a convogliarlo nel punto desiderato. Normalmente il canale, che in alcuni casi era lungo anche più di un chilometro, aveva gli argini di terra battuta e nei tratti depressi era tenuto in quota da un rilevato rinforzato da fascine a da pali (la “palata”). Delle paratoie collocate lungo il percorso permettevano di deviare le eventuali eccedenze o di interrompere del tutto il flusso, per esempio in caso di piena o per effettuare le manutenzioni. Se il fiume o il torrente avevano la tendenza ad andare in secca durante l’estate (e dalle nostre parti succedeva spesso), a monte del mulino si costruiva una vasca in muratura per accumulare una riserva d’acqua sufficiente a fa girare le macine per un certo tempo; poi il lavoro veniva sospeso in attesa che la vasca si riempisse di nuovo.
Gli impianti a ruota orizzontale erano riconoscibili anche esternamente da una specie di torre che sormontava l’edificio dal lato a monte. La torre conteneva all’ interno un pozzo (la “canna”) profondo non meno di sei metri: serviva a far aumentare la pressione dell’acqua e la velocità nel punto di uscita. La ruota motrice, detta in gergo “ritrécine”, era collocata in un vano seminterrato normalmente coperto a volta, posto sotto il locale delle macine. Il “ritrécine” era formato da una serie di palette di legno (12 o anche 16) montate a raggiera su un robusto mozzo, anch’esso di legno. Negli opifici più antichi al posto delle palette venivano usati i “catini”, dei grossi cucchiai ricavati da un quarto di tronco d’albero. L’acqua, uscendo a pressione da un foro praticato sul fondo della “canna”, colpiva le palette (o i “catini”) e faceva girare il “ritrécine”; questo, mediante un’asta di ferro, trasmetteva il movimento, “in presa diretta”, alla macina girante (quella superiore: l’altra era fissa). Un dispositivo azionato da un volantino a vite consentiva di distanziare le macine tra loro di qualche millimetro. La manovra era necessaria per mettere “a folle” il mulino al momento dell’avvio, altrimenti non partiva; oppure serviva a regolare la grana della farina, più grossa o più fine.
Le macine dei mulini, a differenza di quelle dei frantoi per le olive, raramente erano monolitiche. Di solito erano formate da blocchi di granito assemblati, tenuti insieme da robuste cerchiature metalliche. Il diametro misurava intorno ai 120 centimetri. La macina girante era spessa 20- 25 centimetri e aveva al centro un grosso foro (l’ “occhio”), nel quale veniva fatto cadere il frumento.
Le facce interne dalle macine presentavano delle scanalature, realizzate secondo schemi prestabiliti. La rigatura aveva diverse funzioni: riduceva la superficie lavorante, e quindi l’attrito; permetteva il passaggio dell’aria, evitando l’eccessivo riscaldamento; facilitava la fuoruscita della farina. Ovviamente le righe tendevano a consumarsi e di tanto in tanto andavano rifatte con degli speciali scalpelli.
Il frumento veniva prima caricato nella tramoggia, un particolare tipo di contenitore tenuto sospeso sulle macine mediante appositi sostegni. Nel tempo la tramoggia aveva assunto la forma fissa di un tronco di piramide capovolto. Era provvista di una chiusura regolabile, detta “mascella”, che faceva simultaneamente da paratoia, da dosatore e da canaletta per convogliare la caduta dei chicchi nell’ “occhio” della macina. Alla “mascella” era attaccato per una estremità un piolo, l’altra estremità del quale ricadeva sulla macina girante. L’accorgimento serviva a produrre delle vibrazioni per impedire che la fuoruscita del frumento si bloccasse. Su uno dei bordi superiori della tramoggia era montata di traverso un’asta tenuta in bilico da un perno, come in una bilancia. Al braccio che sporgeva verso l’interno era sospeso con una cordicella uno zoccolo di legno, all’altro braccio era appeso un campanello. Quando la tramoggia veniva riempita, lo zoccolo veniva spinto sul fondo e il campanello rimaneva a mezz’aria. Quando il frumento stava per esaurirsi, lo zoccolo si liberava e il campanello precipitava sulla superficie della macina in movimento: il frastuono segnalava al mugnaio che occorreva ricaricare. Per sfarinare un quintale di frumento accorreva circa un’ora.
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Abbiamo iniziato questo discorso sui mulini ricordando che nel 1870 fu fatto il censimento di tutti gli impianti esistenti in provincia di Avellino e abbiamo citato il libro in cui ora sono pubblicati i dati. A Lioni furono rilevati sette mulini, dei quali era indicato anche il gestore. L’elenco era il seguente (pag. 198 del libro):
1. Fontaniello, Crescenzo Calabrese;
2. Piano d’Oppido, Pasquale Miano (ma forse era Milano);
3. Gorgosao, Luigi Quagliariello;
4. Cupa, Angelo Verderosa;
5. Cava, Salvatore Soriano;
6. Schinicosa, Vito Sarno;
7. Trascietto, Rocco Pietro Cavallo.
La posizione degli impianti si individua abbastanza agevolmente sulle mappe (tranne in un caso che diremo), utilizzando insieme le tavolette IGM, che riportano i nomi delle contrade, e i fogli catastali, dove si vedono chiaramente i canali di alimentazione e le vasche di accumulo. Precisiamo che le tavolette IGM alle quali ci riferiamo sono quelle 1: 25000 (Foglio 450, Sez II (Lioni) e, per il mulino Fontaniello, Sez. III (Montella)) e le mappe catastali devono essere quelle cartacee che si usavano prima del terremoto, le quali descrivono ancora il territorio come appariva agli inizi del Novecento. A titolo di esempio, la Fig. 1 mostra sulla tavoletta IGM dove era ubicato il mulino di Piano d’Oppido e la Fig. 2 fa vedere il canale e l’invaso dello stesso mulino così come appaiono sulla mappa catastale (foglio 26).
Figg. 1-2. La posizione del mulino di Piano d’Oppido
Ma torniamo all’elenco.
Fontaniello è un torrente che nasce in comune di S. Angelo e sbocca nell’Ofanto poco distante dalla stazione ferroviaria di S. Angelo. Il mulino si trovava tra la ferrovia e il fiume, presso il passaggio a livello del km. 60 (Catasto Lioni, f. 3, p.lle 208 e 151); malgrado il nome, riceveva l’acqua dall’Ofanto, ma il punto di derivazione, per via delle pendenze, era lontano più di un chilometro. I ruderi dell’impianto si vedevano ancora negli anni 50 del secolo scorso.
Il mulino di Piano d’Oppido era sul Vallone Arsa, a monte dell’incrocio con la via Vaticale, che è quella che passa davanti alla cava di Iuliano (riferimento catastale: f. 26, p.lle 307 e 250).
A Gorgosao, vale a dire nella zona della Cascata, a un centinaio di metri dall’ imbocco della galleria sulla ferrovia, c’erano ben due impianti: uno era un mulino a due coppie di macine, l’altro era mulino e gualchiera insieme(delle gualchiere parleremo in un’altra occasione). Di entrambi gli edifici rimangono le murature (f. 12, p.lle 447 e 448).
Il mulino Cupa si trovava in contrada Vadetta. Era alimentato dal Vallone del Varo del Milo. E’ riportato in mappa al f. 20, p.lla 121.
La Schinicosa è un torrente che scorre quasi per intero in territorio di S. Angelo; nell’ultimo tratto, invece, marca il confine tra Lioni e Morra. Del mulino rimane il rudere, che è riportato, con il suo canale di derivazione, al f. 14, p.lla 47.
Il mulino Trascietto era il più vicino al centro abitato. Si trovava al margine del Piano di Zona Fiego, sulla sponda destra del vallone (ora intubato), di fronte all’ex scuola materna, precisamente sull’area attualmente occupata dall’abitazione della famiglia Di Paolo Capisicco (in mappa: f. 10, p.lla 170). Una traccia residua dell’esistenza di questo impianto sta nel fatto che l’attuale Via Querce Nuove sul foglio di mappa è indicata ancora con l’antico nome di Strada Vicinale Moliniello.
Rimane da identificare il mulino che nell’elenco del 1870 è chiamato Cava. Ci sono due possibilità. Una è che si tratti dell’impianto che i lionesi conoscono semplicemente come lo Moliniello (in mappa: f. 9, p.lla 468), alla periferia ovest del paese, tra la ferrovia e l’Ofanto, sul confine tra le contrade S. Antonio (re cave de S. Antonio) e Macchione. Portava a lo Moliniello la strada che dalla chiesa di S. Bernardino scende verso il fiume, passando davanti ai capannoni dei fratelli Garofalo Cappiello.
L’altra ipotesi è che il mulino Cava fosse a metà percorso del vallone Perrone (la cava de Perrone). L’edificio esiste ancora, anzi costituisce un punto fiduciale sulla mappa catastale (f. 5, p.lla 513, p. f. 9). Quello dei due impianti che non è riportato nell’elenco del 1870 o all’epoca non c’era ancora, oppure non veniva più utilizzato (ma lo Moliniello doveva essere in attività negli anni novanta, se i costruttori della ferrovia realizzarono un sottopasso per consentire di arrivarci).
Fu sicuramente costruito dopo il 1870 il mulino Pallante, sulla riva sinistra dell’Ofanto, presso il ponte della strada per Oppido. Questo mulino aveva una particolarità: era a ruota verticale, uno dei pochissimi impianti di questo tipo in Alta Irpinia, dove – come abbiamo visto nell’articolo precedente – prevaleva largamente il tipo a ruota orizzontale. L’edificio non esiste più (al suo posto adesso c’è la casa di Alessandro Soriano Mastotonto), ma è riportato nella mappa catastale (f. 21), insieme al complicato canale di alimentazione che prelevava l’acqua in diversi punti del fiume.
Dopo la prima guerra mondiale i mulini ad acqua cominciarono ad essere gradualmente soppiantati da quelli a corrente elettrica, che avevano il vantaggio di poter essere installati dove servivano e non soltanto dove era possibile. Ma alcuni dei vecchi impianti continuarono a funzionare e si rivelarono utilissimi durante il secondo conflitto: non solo perché in quel periodo la corrente mancava spesso, ma anche perché, essendo situati in posti fuori mano, erano meno facilmente controllabili, e questo permetteva di eludere le norme di guerra che vietavano di macinare più di una certa quantità di grano per uso proprio.
Fig. 1. Il “macchinario” di un mulino a ruota orizzontale
Fig. 2 . Sezione dell’edificio di un mulino a ruota orizzontale
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